Forlivese di nascita e cosmopolita per vocazione, Silvia Camporesi, bioeticista, è una delle massime esperte – non solo in Italia – di scienza e etica dello sport. Un unicum nel panorama nazionale per campi di ricerca e di applicazione.
Docente di Sports Ethics & Integrity all’università belga KU Leuven. È stata responsabile del Bioethics & Society Programme al King’s College di Londra. È vicepresidente dell’Associazione britannica per la filosofia dello sport (Bpsa) e fa parte dei quattro External Expert Advisors di Etica della Wada, l’agenzia antidoping.
Un’autorità riconosciuta a livello internazionale in materia di sport paralimpico. Di recente è stata chiamata a esprimersi sul caso della pugile algerina Imane Khelif, al centro delle polemiche per la sua partecipazione nella categoria femminile alle Olimpiadi di Parigi.
“Imane Khelif è una donna,” ha precisato in una intervista. “Una persona con ‘variazioni delle caratteristiche del sesso’ (Vcs), che possono comportare anche iperandrogenismo, cioè una produzione di ormoni superiori a una ipotetica media femminile. Si tratta di una condizione naturale e di una produzione endogena, non di doping.”
Quarantadue anni, sposata con James, conosciuto a Washington durante la tesi di dottorato. Silvia Camporesi è mamma di tre bambini: Arturo di 7 anni, Lorenzo di 4 e Gaia di 3.
“Il mio amore per la scienza è nato sui banchi di scuola, al Liceo Scientifico. Quello per lo sport sulle piste del Campo Gotti quando mi allenavo sotto la guida di Antonio Bartoletti e dove ho ancora molte delle mie amicizie.” È qui che Silvia, mezzofondista negli 800 e 1500 metri per la squadra di atletica leggera – “ma mai campionessa,” aggiunge – scopre e coltiva la passione per lo sport. Fino a farne una professione. Ma da un altro punto di osservazione.
“In quinta liceo una mia compagna si ammalò di tumore al polmone,” racconta. “Un episodio doloroso che mi colpì molto e mi spinse ad avvicinarmi al mondo della ricerca.” Dopo il diploma Silvia Camporesi si iscrive al primo corso di laurea in Biotecnologie all’Università di Bologna e contemporaneamente frequenta corsi extracurricolari in materie letterarie.
Sono gli anni in cui si sedimenta la sua identità – termine che preferisce a ‘carriera’ – legata alla bioetica come ponte fra due culture. Quella scientifica e quella umanistica. A Milano si iscrive al primo corso in Fondamenti di scienze della vita e bioetica e consegue il dottorato. “Milano mi piaceva molto,” dice, “ma non c’erano sbocchi lavorativi per la mia specializzazione.”
E così, dopo un’esperienza a Washington, dove mette a punto la tesi di dottorato sulla sperimentazione del farmaco in fase 1 per pazienti oncologici al National Institutes of Health (Nih), nel 2010 vola al King’s College di Londra. E dà avvio alla carriera accademica come professore associato in Bioetica. “Pensavo di restare tre anni e invece sono rimasta fino al 2022.” Sono gli anni in cui inizia a occuparsi in maniera preponderante di etica e sport.
“Avevo iniziato a farlo nel 2008 con il caso di Oscar Pistorius, il primo atleta paralimpico (Ndr, una malformazione congenita lo aveva costretto all’amputazione degli arti inferiori sostituiti da protesi) a competere con atleti normodotati che ha segnato uno spartiacque tra un prima, in cui c’erano le Olimpiadi e le Paralimpiadi, e un dopo, in cui alle Olimpiadi avrebbero potuto partecipare atleti con tecnologia assistiva se si fossero qualificati
Un momento decisivo per gli ideali paralimpici di uguaglianza e di inclusività. Anche se poi, negli ultimi 12 anni, non abbiamo più visto questi atleti competere alle Olimpiadi.”
Nel suo libro Partire (S)vantaggiati: Corpi Bionici e Atleti Geneticamente Modificati per la collana ‘Icaro’ di Fandango, vengono prese in esame in modo critico le politiche internazionali che regolamentano la partecipazione di atleti e atlete alle competizioni sportive, a partire da alcuni interrogativi di fondo: per quale ragione alcuni vantaggi vengono considerati equi e altri iniqui e regolati? Chi decide quando una disabilità diventa una super abilità? Come le biotecnologie e la terapia genica influiscono sul corpo umano e sullo sportivo?
“Il futuro del corpo umano è il cyborg: la crescente commistione tra naturale e artificiale, fra biologico e sintetico,” dice Silvia Camporesi. “La nostra specie per continuare a esistere deve evolversi in una permeabilità del corpo biologico alla tecnologia. Non dobbiamo esserne spaventati perché i corpi cyborg sono già in mezzo a noi: è il caso di chi ha una protesi all’anca in titanio o una valvola cardiaca artificiale o un ginocchio in acciaio. Le biotecnologie possono far paura, è vero, ma è inevitabile immaginare una evoluzione dell’essere umano, mantenendo sempre un approccio critico.”
Dal mese di settembre ha assunto il ruolo di professore ordinario di Sports Ethics & Integrity (Integrità e Etica dello sport e Bioetica) all’università KU di Lovanio, in Belgio, ma continua a mantenere un forte legame con Forlì. “Qui vanno a scuola i miei figli, qui ho i miei affetti e le mie amicizie. E poi c’è la piadina.”
Cosa direbbe alla Silvia di allora, fresca di diploma e in procinto di lasciare i banchi del liceo? “Quello che direi a tutti i ragazzi e le ragazze che sono in cerca della propria strada: scegliete la cosa che vi piace di più, che vi fa sentire vivi. Non basatevi sulle statistiche o sulle possibilità occupazionali. Scegliete la vostra passione perché è quella che vi farà trovare la strada, anche quando è in salita, e che vi darà la spinta a percorrerla con determinazione ed entusiasmo.”