Esattamente ottant’anni fa, anche la nostra città viveva la sua estate di guerra più drammatica. Funestata dalla tempesta dei bombardamenti aerei che, nel loro vortice di lutti e di distruzione, ne avrebbero mutato il volto per sempre.
Da quando, il 10 giugno 1940, il boato di Piazza Venezia, trasmesso dagli altoparlanti, si era fuso con quello di piazza del Popolo nell’ora della scesa in campo dell’Italia, la vita della città aveva continuato a svolgersi per lungo tempo in maniera relativamente normale.
Qui la guerra aveva davvero bussato alla porta solo con l’occupazione tedesca nel settembre del 1943. Ma ancora nei mesi successivi non vi erano stati grossi turbamenti. Lontana dalle grandi vie di comunicazione, con un porto all’epoca di secondaria importanza e ormai praticamente inattivo, la città era rimasta completamente immune dai bombardamenti aerei. Che nel corso dell’anno avevano iniziato a colpire massicciamente molti centri della penisola.
Finché, il 30 dicembre 1943, anche Ravenna aveva conosciuto il battesimo del fuoco di una lunga serie di incursioni. Destinata a interrompersi solo con la liberazione del 4 dicembre 1944. Seppur non completamente inatteso, quel primo bombardamento, che investì soprattutto i quartieri della zona ferroviaria e portuale, fu il più grave dal punto di vista delle perdite di vite umane. Circa sessanta, compresa una quarantina di soldati slovacchi acquartierati nella zona del Candiano.
L’anno che si apriva, però, avrebbe portato danni materiali ben più gravi, cancellando le illusioni di chi riteneva che Ravenna sarebbe stata risparmiata in virtù dell’importanza dei suoi monumenti. Dopo un nuovo attacco il 22 marzo, che stavolta colpì anche in pieno centro, inducendo le autorità a trasferire le ossa di Dante nel più sicuro tumulo accanto al sepolcro, fu il 29 giugno che iniziò la calda estate dei bombardamenti sulla città. Mentre chi poteva abbandonava il centro urbano per rifugiarsi in campagna, nel corso del mese di luglio la teoria delle incursioni aeree si snocciolò sempre più fitta e distruttiva.
Nei primi giorni del mese fecero la loro comparsa anche i cosiddetti ‘Pippo’, aerei da caccia che compivano missioni solitarie nel cuore della notte. Con effetti psicologici particolarmente logoranti per la popolazione. Fra i bombardamenti pesanti, particolarmente duro fu quello del 23 luglio, festa di S. Apollinare, quando fu ancora colpito gravemente il centro storico con gravi danni alla Loggetta Lombardesca. Ma il peggio doveva ancora arrivare.
Il 25 agosto, in particolare, fu senza dubbio la giornata più drammatica della storia ravennate dell’ultimo secolo. Iniziata con la strage dei dodici partigiani al ponte degli Allocchi, terminata con il primo bombardamento notturno sulla città. Quella notte il chiarore dei bengala fu osservato da tutta la Romagna e dall’Appennino bolognese fino a San Marino, sinistro riverbero del grado di devastazione cui veniva sottoposta l’antica capitale.
Il colpo più grave, fra gli innumerevoli che si potrebbero elencare oltre alle 24 vittime, fu quello che subì la chiesa di S. Giovanni Evangelista, che fu quasi completamente distrutta (solo il campanile sopravvisse per miracolo) e che quindi sarebbe stata ricostruita quasi integralmente nel dopoguerra. Altri due attacchi notturni si verificarono il 4 e il 9 settembre. Il primo comportò fra l’altro la totale distruzione di un’altra antica chiesa, quella di S. Vittore.
Questi furono gli ultimi grandi bombardamenti su Ravenna, o almeno gli ultimi di cui si abbia una certa contezza. Per tutto l’autunno ne seguirono altri sui quali, data la situazione di una città ormai spopolata e ridotta a retrovia del fronte di combattimento, non abbiamo molte informazioni. Ma ebbero ancora un esito disastroso per il patrimonio artistico, in particolare la distruzione della chiesa di S. Maria in Porto Fuori con i suoi preziosi affreschi trecenteschi, e per il nuovo tributo di vittime civili.
La Ravenna in cui, il 4 dicembre, fecero il loro ingresso le avanguardie inglesi insieme ad alcuni gruppi partigiani era una città profondamente ferita. Nel suo tessuto urbano e nelle sue memorie storiche. Oltre ai monumenti, la violenza delle bombe aveva devastato interi quartieri, come appunto quello di San Vittore e l’area portuale e ferroviaria.
E proprio la zona della stazione, che prima della guerra era una delle più verdi e attraenti della città, rispecchia nel complesso i limiti della ricostruzione. Impegnata a tenere il passo dell’impetuosa evoluzione economica e sociale del dopoguerra.
Dopo le distruzioni, le violenze e i rancori degli ultimi anni di guerra, Ravenna si affacciava sul futuro del ‘miracolo economico’. Per un certo periodo, avrebbe fatto dell’antica ‘città morta’ una delle realtà più dinamiche del paese. Un futuro che, però, la città avrebbe accolto privata di una parte delle sue memorie e della sua anima profonda. Distrutte per sempre insieme alle pietre dei suoi monumenti e delle sue case.