Castiglione e il Savio

di Andrea Casadio, foto Massimo Fiorentini
La storia Di una località divisa fra le sponde di un fiume
Passeggiando sugli argini del Savio a Castiglione, come in volo sul profilo dei tetti e dei campanili svettanti oltre la mole turrita di palazzo Grossi, si ha la plastica sensazione di quanto artificiale sia l’equilibrio idrogeologico costruito nel corso dei secoli nelle nostre pianure. Quello che normalmente veniva considerato un dato di fatto quasi scontato, è tornato drammaticamente d’attualità con la disastrosa alluvione di maggio.

In quel caso, la grande barriera di terra ha tenuto duro, salvando il paese di Castiglione dalla furia delle acque. Purtroppo, non altrettanto si può dire per la sponda cervese più a valle, il cui cedimento ha provocato l’allagamento della campagna e delle saline. Fino ai primi quartieri della città.

Da questo episodio è risultata evidente anche un’altra realtà, e cioè quella del fiume come entità che, al contempo, divide e unisce. In un viaggio a ritroso di circa 2200 anni, possiamo immaginare i guerrieri baffuti calcare le nostre stesse orme sulla sponda ravennate, estremo avamposto del mondo celtico, e su quella opposta fare capolino i pennacchi dei legionari.

Per qualche decennio, infatti, la prima espansione dei romani nella pianura padana a partire da Rimini, testimoniata dall’imponente griglia della centuriazione ancora ben riconoscibile nella campagna cesenate da Pisignano e Cannuzzo in giù, trovò proprio qui un temporaneo limite. Forse nacque allora il carattere del Savio. Come il più importante confine interno della Romagna. Così evidente, ad esempio, nella divaricazione fra le diverse inflessioni del dialetto, diviso nelle due varianti al di qua e al di là del fiume.

Al tempo stesso, però, i tetti e i campanili delle due Castiglione, di Ravenna e di Cervia, ci dicono che una linea di divisione vuole anche un punto di contatto. E attorno ad esso due mondi relativamente diversi possono coagularsi in un’unica realtà.

A differenza degli altri fiumi romagnoli – e a dispetto delle alluvioni – il Savio non ha sostanzialmente mutato il suo corso rispetto ai secoli dell’antichità. Di quell’epoca, però, abbiamo ben poche vestigia. Al di là di qualche sporadico affioramento archeologico.

Per avere la prima attestazione dell’esistenza di un centro abitato, dobbiamo varcare abbondantemente la soglia dell’anno Mille, fino al 1108, anche se non è chiaro a quale lato del fiume tale testimonianza faccia riferimento. Lo stesso toponimo indicava infatti già allora un’unica località divisa fra le due sponde.

Su quella ravennate, nel XII secolo esisteva la chiesa di S. Giovanni in Castillione (da cui Castiglione), mentre due mulini e un guado erano sotto il controllo del maggiore possidente della zona. La casata ravennate degli Onesti, sostituita poi, nel corso del Trecento, dai Polentani.

Proprio a questo periodo (la prima attestazione è del 1288) risale il manufatto più antico oggi esistente nella località. La torre detta appunto “polentana”, accanto alla quale fu costruita dai Lovatelli, probabilmente nel XVII secolo, la villa gentilizia passata poi nelle mani di diversi proprietari.

Più a valle, un punto focale del territorio castiglionese era il passo di S. Gervasio, all’incirca nel sito dell’odierna Savio, dove un ponte esisteva già nel Medioevo. Qui un ‘ospizio’ accoglieva i pellegrini romei che attraversavano il fiume percorrendo la Carrara Ravignana. La strada costiera che era il corrispondente dell’odierna statale.

In questa zona ormai a ridosso della costa il paesaggio si faceva via via più selvaggio, in un ambiente di boschi e paludi sul quale esercitavano il loro controllo alcune delle grandi abbazie ravennati. Appunto da gazo (bosco) trae probabilmente il nome la località della Ragazzena, la grande tenuta a sud del fiume di proprietà del monastero di Classe.

Oggi il palazzo e la cappella annessa sopravvivono in suggestivo e malinconico abbandono, nel solitario panorama della ‘larga’ a ridosso dell’argine. Sull’altra sponda, più verso il mare, si estendeva invece la pineta del monastero di S. Giovanni Evangelista, in pratica la propaggine meridionale di quella di Classe. Sfortunatamente però, a differenza di quest’ultima, destinata a non sopravvivere all’accetta della frenesia ‘bonificatoria’ della fine del XIX secolo.

Risalendo a monte, c’erano invece zone in cui la presenza umana era ben più antica e consistente, come Mensa o Cannuzzo. Località, questa, pure divisa in due dal fiume, e la cui parte ravennate prese la denominazione di Matellica quando, alla fine del Medioevo, ne assunse il feudo la casata padrona dell’omonima città marchigiana.

Passata in seguito a diverse famiglie principesche (gli Aldobrandini, i Doria-Pamphili), Matellica era caratterizzata soprattutto dalla presenza di un importante mulino. E del ponte sul Savio, teatro di feroci combattimenti fra murattiani e austriaci nel 1815.

Sospesa fra la zona selvaggia a nord-est e quella agricola a sud-ovest, per molti secoli l’attuale Castiglione, ravennate o cervese che fosse, restò una località semi-spopolata. Ne è prova il fatto che sul lato cervese non vi sia notizia di un edificio di culto prima del Cinquecento. Quando probabilmente fu edificata la chiesa di S. Antonio Abate, poi ricostruita nel sito attuale all’inizio del secolo scorso.

Sul lato ravennate, come abbiamo visto, un oratorio dedicato a san Giovanni esisteva già in epoca medievale. Non sappiamo però che rapporto intercorra fra questo e il tempio consacrato a san Pantaleone, che compare solo dal 1411, a sua volta ricostruito all’inizio dell’Ottocento.

La vera presenza iconica di Castiglione di Ravenna è però palazzo Grossi. La villa-fortezza edificata dall’omonima famiglia ravennate alla metà del Cinquecento. La sua mole imponente ricorda i tempi in cui le residenze signorili avevano ancora un aspetto militaresco, prima di ingentilirsi in forme più consone allo stile di vita di un’aristocrazia ormai ‘civilizzata’.

Di queste c’è un esempio, quasi a contraltare della sponda ravennate, su quella cervese nel settecentesco palazzo Guazzi. Ma a fare da contrappunto a palazzo Grossi, a pochi metri di distanza, sorge anche l’altrettanto maestosa presenza dei magazzini del tabacco. Testimonianza di un’epoca in cui le delizie delle villeggiature aristocratiche erano state sostituite dalla modernità dell’agricoltura industriale.

Fu allora, alla fine dell’Ottocento, che l’irruzione sulla scena delle masse popolari, dei mezzadri repubblicani e dei braccianti anarchici e socialisti, conferì a questa borgata una particolare natura socio-politica, del resto comune a gran parte della Romagna.

Castiglione e il Savio
In apertura, l’iconico Palazzo Grossi, edificato a metà del Cinquecento. Seguono alcuni scatti della zona interessata.
Castiglione e il Savio
Echi di una storia a sua volta ormai chiusa insieme al Novecento, e che ha avuto come testimoni almeno due nomi che è doveroso ricordare: Tolmino Baldassari, il poeta bracciante, e Umberto Foschi, alla cui memoria è dedicata l’associazione culturale che ne perpetua l’opera indefessa nello studio della storia e del folklore romagnolo.

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