Eleazaro Rossi, dissacrante sul palcoscenico e riservato nella vita, da oltre un anno fa parte del cast de Le Iene. Quando non indossa la divisa da Iena, veste quella total black per calcare i palchi di tutt’Italia con uno spettacolo che si chiama L’Ora di Religione in cui porta se stesso, la propria visione del mondo e tanto della sua vita privata e del suo lavoro.
Ironia della sorte, ha scelto di dare al suo spettacolo il nome di un qualcosa per antonomasia facoltativo, e di risposta quasi tutte le date sono andate sold out. A Forlì, per soddisfare la grande richiesta, le serate consecutive sono state quattro.
D. Una chiacchierata con te, Eleazaro Rossi, dicci: com’è stata la vita tra Forlì, Forlimpopoli e Galeata?
R. “Intanto un chiarimento, non me ne vogliano i forlimpopolesi ma io con Forlimpopoli non c’entro niente, ci sono solo nato. Per un po’ di tempo avevo il dentista a Forlimpopoli. E una volta ci ho comprato una Playstation usata: fine dei miei rapporti con la città di Pellegrino Artusi.
Io sono prima di Galeata e poi, negli ultimi quindici anni, di Forlì – anche se negli ultimi dodici mesi sono apolide, non sto fermo due giorni nello stesso posto. La vita a Forlì è stata buona con me. Questa città l’amavo molto già prima di andarmene, era la città in cui volevo vivere, ora che non ci abito più ogni volta che torno provo una forte malinconia.
Per l’animale abitudinario che sono è perfetta, a me piace andare sempre nei soliti due posti, ancora e ancora, fino a riconoscerli come estensioni di casa mia. E poi, la natura delle persone: i romagnoli bilanciano un temperamento operoso e instancabile a un’umiltà e una disponibilità commovente, come continuano a dimostrare in questi giorni.
Tutte cose di cui un provinciale come me si rende conto solo quando prova a vivere per più di tre giorni nelle grandi città.”
D. Leggendo le varie interviste si dice che della tua vita privata non si sappia nulla, quindi ti chiedo: oltre a un abitudinario provinciale, chi sei fuori dal palco?
R. “In realtà ascoltando i miei monologhi si sa moltissimo della mia vita privata, dei miei tic, delle mie perversioni, delle debolezze. La mia vita privata è molto spesso – quasi sempre – il cavallo di Troia: se parlo di me, se mi spoglio io per primo, poi posso prendere in giro chiunque e qualsiasi cosa.
Questo è un meccanismo classico del comico, un trabocchetto. È a tutti gli effetti uno scambio col pubblico. Io vi do qualcosa di personale e voi mi consentite delle libertà che altrimenti non concedereste. Spesso ho la sensazione che sul palco mi possa essere perdonata qualsiasi cosa, qualsiasi battuta – a volte anche fuori dal palco.”
D. Perdonare, ancora una volta un concetto cristiano. Perché dovremmo perdonarti Eleazaro Rossi, esistono cose su cui non si può scherzare?
R. “Non esistono cose su cui non si può scherzare. Il fulcro del nostro mestiere è tutto qui, prendere una storia di cui il pubblico non voglia ridere, qualcosa che lo spaventi oppure che lo inorridisca o sia imbarazzante o deprimente, e liberarlo.
La comicità è tutta qui, è un rito di liberazione, è la devastazione delle sovrastrutture: manipolare le parole fino a trasformare la morte in un sussulto di felicità. Per me questa cosa è sacra, è uno dei modi che abbiamo trovato come specie per sottrarci al dolore e al vuoto, è una magia potente che va protetta.”
D. Un sacco di persone ti definiscono ‘tagliente’, tu come rispondi a questo epiteto che sembra più che altro un insulto?
R. “Tagliente? Non lo so. Faccio fatica a dare una definizione al mio lavoro, il pubblico ai miei spettacoli ride molto, molto di rado è successo che qualcuno si alzasse, borbottasse qualcosa e se ne andasse. Forse per loro sono stato tagliente, non è né colpa mia né colpa loro, non ci siamo capiti, non ci siamo stati simpatici. Capita.”
D. A proposito del tuo lavoro: in un’intervista hai detto che non avresti mai pensato di fare questo mestiere, al punto che scrivevi in inglese proprio perché pensavi che non sarebbe mai successo…
R. “No, non pensavo che sarei riuscito a guadagnarmi da vivere scrivendo. Sono, ed ero, abbastanza fatalista: a trentacinque anni suonati avevo combinato poco o niente, non avevo una direzione artistica, non c’era uno scopo, non c’erano idee ed era finita la stagione delle velleità.
Poi sono un procrastinatore patologico, forse è un tratto della mia generazione, questo modo passivo di non arrendersi: ‘non voglio annullarmi in un lavoro che non mi piace e allo stesso tempo non ho – non mi sono stati dati – gli strumenti necessari a credere in me stesso, a creare un progetto’. È un modo come un altro per diventare vecchi soffrendo il meno possibile. E poi è successo quello che è successo, ho provato una cosa che rimandavo da anni, ha funzionato subito. Bello così, eh!”
D. Bello eccome! Quindi, Eleazaro Rossi ad oggi sei un comico?
R. “Oggi sono due cose, prima sono un padre e poi sono un artigiano, mi occupo di mia figlia e mi occupo di mettere insieme parole. Mi divido tra mia figlia e il lavoro, non mi interessa di nient’altro. Appena ho un giorno libero la raggiungo.”
D. Per citare Elio e le Storie Tese: Non sto piangendo, mi è entrata una bruschetta nell’occhio! D’altra parte, la Romagna è sempre stata terra di patacca, e tu? Ti ci senti?
R. “Patacca sempre, e con orgoglio.”
D. Torniamo seri: oggi si parla tanto di ‘stand-up’, ma i comici non esistono più? Che differenza c’è?
R. “No, questa differenza non è mai veramente esistita. È stata un’ottima trovata pubblicitaria, geniale quasi, per incanalare nuovi comici in un asset quasi impenetrabile. Negli anni zero per diventare comico o passavi da Zelig o passavi da Zelig (e poi, molto meno, da Colorado).
Il movimento della stand-up comedy ha sparigliato tutto e fatto esplodere talenti comici senza farli passare dai canali ‘ufficiali’. Ma sono sempre comici. La differenza è che non abbiamo alle spalle qualcuno che, senza essere mai salito su un palco, ci dice come si scrivono i pezzi e ci spiega cosa vuole il pubblico. I pezzi li scriviamo da soli o li scriviamo con quelli che riteniamo ‘pari’, con cui abbiamo condiviso un palco, una macchina, un viaggio in flixbus o un letto. Non abbiamo maestri e non abbiamo debiti di riconoscenza: è una bella libertà. (continua…)