Per Giovanni Fabbri quel qualcosa è la terra, sia come materia fisica che come memoria. Nato in una famiglia di agricoltori mezzadri nella collina romagnola, sul crinale che divide Predappio da Meldola dove non si vede la linea dell’orizzonte, si trasferisce nel 1960, a 13 anni, a Castiglione di Cervia. A ridosso del fiume Savio, dove tuttora abita, lavora e continua a coltivare la terra.
A 35 anni, dopo un breve periodo musicale – per alcuni anni suona il clarinetto esibendosi con alcuni complessi tra cui “I Bizantini” di Ravenna – si iscrive ai corsi liberi all’Accademia di Ravenna. E successivamente ai corsi regolari, tanto che diventa per oltre 10 anni la sua seconda casa. Dall’Accademia gli resta l’impronta di Umberto Folli che dipingeva dal vero insieme agli allievi, dal quale ha appreso il mestiere.
Gli ha fatto capire che la pittura è fatta di rapporti e di equilibri tra figure e colori. Segni e disegni. Pieni e di vuoti, peso e leggerezza, valori tonali e timbrici, materici e lirici.
Erano anni di fermenti culturali, di aperture che stimolavano ad andare oltre l’ambito locale e vedere quello che stava succedendo nel mondo dell’arte. Dopo la fase dell’apprendistato e della formazione, in piena autonomia Giovanni Fabbri sceglie come protagonista della sua pittura la materia. Il quarzo usato dagli imbianchini e dai muratori, un materiale che gli dava emozioni e lo spessore, gli ricordava la terra ‘contadina’ che ha assimilato. E che sente dentro, come sente i colori della natura.
La stende a spatolate, poi viene incisa, distrutta e ricomposta. Con quella tensione che è tormento ed esaltazione, memore della passione per l’affresco, per i dipinti sul muro, in particolare di ambito senese. Al centro dell’immagine si addensa la materia che contiene memoria e paesaggio, mentre alla periferia e ai margini resta il vuoto. Come qualcosa di atmosferico che trascina all’interno da uno stato di sospensione.
Riesce a passare da tensioni espressionistiche informali al naturalismo astratto, dall’esistenzialismo al paesaggio, con una vena poetica dove la casa è sentita come una presenza d’affetto che permane. Le sue case sono sempre in bilico, eppure resistono.
Già nel 2013 Claudio Spadoni, presentandolo in catalogo per la mostra Visioni della memoria, faceva notare che “si potrebbe dire che queste sono state, e in qualche misura restano tuttora, le due vie della sua pittura. […] Due vie, ma s’intende bene che si tratta pur sempre di strade proprie. Con cronologia sbilenca proprio come certe sue case di campagna che non sapresti datare con accettabile approssimazione.”
Nel suo percorso espositivo è entrata anche la pittura di soggetto sacro. Su indicazione di Franco Patruno ha affrescato una cappella in San Zeno in Monte a Verona e durante la pandemia ha realizzato una monumentale Via Crucis. Recuperati piccoli disegni figurativi eseguiti trent’anni fa insieme a Giuliano Giuliani per un concorso per la casa circondariale di Arma di Taggia, ha dipinto 15 grandi tele di 2 metri x 2. Queste sono state esposte a Cesena, a Sant’Agostino, in presenza del vescovo e successivamente in altre sedi, con la presentazione di Paolo Degli Angeli.