Lo studio in cui creava il pittore Giulio Turci (1917-1978). Con uno sguardo privilegiato sulla Valmarecchia e sul paese vecchio, sulla ‘sua’ rocca malatestiana, a fianco alla quale abitò lungamente. Da lontano giunge il vociare del borgo, del passeggio che lambisce lo storico palazzo di via Don Minzoni 49, sotto il quale un tempo insisteva lo studio fotografico di famiglia.
Una famiglia, quella di origine, che ha vissuto in America per velleità artistiche. La madre Maria Sarti era attrice, e il padre Giulio, clarinettista, riportò qui in Italia, nei primi anni dieci del Novecento, le esperienze maturate oltreoceano come il cinema e la fotografia ‘alla americana’.
La mansarda-studio, costruita negli anni Sessanta come una torre d’avorio sospesa da cui la sua arte si riverbera ancora oggi, la si raggiunge su appuntamento, affiliata al circuito della associazione nazionale Case della Memoria. Salendo le scale sembra sprigionarsi dalla cucina il profumo di un buon ‘caffè birella’, un po’ lungo, che Terza, la moglie, offriva agli amici in visita, Baldini, Bernardi, Fucci, Guerra, Macrelli, Moroni, Nicolini, Pedretti. Gesto di benvenuto che ancora oggi ripetono le figlie Miresa e Wilma.
Un cenacolo attrattivo quello di Giulio Turci, un riferimento per gli amici. Spesso ascoltavamo qualche buon disco in silenzio, scriveva, in un ricordo dell’amico, il poeta Nino Pedretti. Musica e pittura nello studio di Giulio stavano sempre assieme anche sulla tela che aveva un’intensa qualità musicale. In questo studio il tempo sembra essersi eternato, il cavalletto, i colori, la scatola delle sigarette, l’archivio, la scacchiera Plymouth, in attesa della prossima mossa.
Sembra di vederlo, Giulio Turci, seduto in mezzo alle sue tele, mentre qualcuno dei suoi amici gli legge una poesia. Sguardo intenso, fronte alta e corrucciata, capelli imbrillantinati, come i divi di Hollywood che vedeva sfilare sugli schermi del suo cinema. Giulio era ansioso, curioso, voglioso di rapporti e insieme timido. Perciò era assai facile ferirlo… Anche in questo era diverso, non aveva la comune e un po’ ostentata giovialità dei romagnoli, scriveva la sceneggiatrice Rina Macrelli.
Se ci si sofferma in uno dei due salotti può sembrare di sentirsi osservati da qualcuno dei suoi personaggi, incuriositi dai suoi armadi segreti, totalmente avvolti dalla potenza dei suoi quadri che vibrano sprigionando una presenza quasi umana, come se potessero raggiungerci le note dei suoi musici.
Le pareti gravide ospitano le tele sia degli anni giovanili sia delle ultime opere, “ancora posizionati come lui stesso decise,” chiosa Miresa. Che ci conduce nella “nostra camera di bambine,” l’evocativa stanza azzurra dal soffitto a vassoio, dove si conservano le foto scattate da x con la sua Leica, aprendoci un mondo ormai scomparso fatto di paesaggi, marine, ritratti, come quelli alla adorata moglie. Suggestioni in bianco e nero che entravano nell’immaginario iconografico del Giulio Turci pittore, riverberandosi anche nei disegni a china realizzati sul retro dei manifesti di vecchi film, quelli passati nella sua sala cinematografica, costruita nel Cinquanta a Santa Giustina.
- Nel ‘52 riceve il Premio per il Bianco e nero, messo in palio dalla Accademia dei Filopatridi, di cui divenne membro.
- Nel ’60 vince il premio Silvestro Lega.
- Nel ‘70 la Medaglia d’oro del Senato della Repubblica Italiana.
Un uomo severo e giocoso, curioso, sapeva divertirsi, scrive Flavio Nicolini, colto, sfaccettato, che calibra la realtà esterna con quella del suo mondo artistico interiore. “Studia musica al Rossini di Pesaro e al Lettimi di Rimini, dove si diploma in violoncello. La musica è ovunque per lui, ecco perché nelle sue tele il violoncello appare senza corde. Possedeva un Capicchioni, del famoso liutaio riminese,” ricorda Miresa. “Prima della guerra suonava persino la batteria in una orchestra jazz.” Le sue orchestre di donne e di uomini così ingigantite dalla sua fantasia mi sembra che abbiano la grazia dei sogni, scriveva Tonino Guerra.
Turci ha viaggiato in Europa, Africa e Asia. Un viaggiare che nel confronto con l’altro ha maggiormente saldato il legame con le radici, col proprio passato, con l’epica del ricordo, che si fa sogno a occhi aperti, liberando una misteriosa poesia disegnata in punta di pennello che permea chi osservi le sue opere.