Ma a 33 anni, dopo 13 di esperienza di alto livello nella ristorazione e la gioia di un figlio, lo chef Mattia Borroni ha acquisito anche altre priorità. “La qualità viene sempre prima di tutto nel lavoro e nella vita. I sacrifici si fanno ma bisogna anche godersi un po’ la famiglia, ci vuole il giusto compromesso.”
D. Aveva appena vent’anni, quando è stato assunto al ristorante Alexander di Ravenna dove tuttora delizia i clienti. Come riassume questo percorso?
R. “Sono una persona che quando crede in un progetto, lo porta avanti a oltranza. Ho iniziato da inesperto e ho potuto esprimere la mia creatività, sperimentando alta cucina e stravolgendo l’identità del ristorante che prima faceva una cucina meno sofisticata. Mi sono confrontato con le difficoltà del lavoro di chef in sé: i primi anni sono stati duri perché ero autodidatta, ora mi sento più sicuro dei miei passi e della mia identità. La gente crede in me e nella mia cucina.”
D. Come le piace definire il suo stile in cucina?
R. “Semplice ma d’effetto con gusti ben riconoscibili, perché non mi piacciono i piatti troppo filosofici solo per gastronomi. Un piatto deve piacere anche a un bambino di dieci anni… La gente ti ricorda perché mangia bene non perché i piatti sono ‘fighi’. Nel tempo sono diventato più critico nei confronti dei piatti, cerco sempre di modificarli per arrivare a quei tre elementi semplici che li rendono perfetti.”
D. C’è un piatto che proprio non ha funzionato nel menù?
R. “La gente fa fatica a mangiare il quinto quarto e le frattaglie di cui sono invece appassionato, quindi mi devo frenare. Ricordo di aver dovuto togliere un piatto che amavo molto a base di rognone con nespole e ricci di mare, ma non andava…”
D. Quali sono invece i suoi cavalli di battaglia, i piatti più amati di sempre?
R. “Il dolce salato di arachidi, in cui gioco con le consistenze dell’ingrediente principe, e il piccione con aceto di lamponi, cipolla rossa e radicchio, un piatto molto particolare che richiede abilità e che solo chi capisce di cucina sa quanto sia difficile.”
D. Come nasce l’ispirazione di un piatto?
R. “In due modi. Anzitutto da uno stimolo esterno, legato a una cena o a un evento che ruota attorno a un certo prodotto. Mi capita di partire da gusti già noti alla gente, per dare vita a qualcosa di originale. Come nel caso del mio bottone di patate, in cui la materia prima è cotta nell’acqua delle cozze, o del risotto ai carciofi dove mi sono divertito a giocare con i sapori inserendo anche polvere di liquirizia.”
D. Lei da sempre crede nel confronto con gli altri chef ed è tra i soci dell’associazione Ravenna Food…
R. “Sì, credo nell’importanza di una sinergia tra chef del territorio, anche per farsi conoscere attraverso eventi. Sono molto amichevole e mi piace prendere spunto da altri, così come dare consigli ai colleghi. Amo il gioco di squadra.”
D. Come si spiega il fatto che Ravenna non abbia un ristorante stellato?
R. “Credo che la città abbia due problemi. Uno è legato al turismo che è di tipo culturale e un po’ ‘datato’: la gente viene per i monumenti. Mentre si sa che i ristoranti stellati vivono non solo grazie ai residenti ma ai turisti. Il secondo ha a che fare con il fatto di crederci: non è impossibile ambire alla stella Michelin ma servono investimenti economici, una buona carta dei vini, un servizio di livello, una forte identità.”
D. Condivide la via aperta dallo chef ravennate Alberto Faccani, due stelle Michelin con il suo Magnolia?
R. “Alberto è uno chef ma anche un imprenditore e ha investito in quella direzione. A Ravenna ci sono pochi ristoratori imprenditori che sono anche chef. Quando aprirò un mio ristorante, ci penserò.”