Ronco e Montone: il corso della storia

di Andrea Casadio, foto Massimo Fiorentini
Il racconto della diversione dei fiumi Ronco e Montone
La primavera scorsa, i drammatici eventi dell’alluvione hanno portato i ravennati a riprendere coscienza di una realtà la cui consapevolezza era sopravvissuta da tempo solo nella cognizione di pochi storici e addetti ai lavori.

Il territorio nel quale viviamo è un ambiente sostanzialmente ‘costruito’, frutto dell’interazione fra elementi naturali (la terra e l’acqua) e intervento umano. La ricerca di un fragile e mai risolutivo equilibrio fra queste componenti è la falsariga su cui si potrebbe leggere l’intera storia della città.

In questo contesto, l’episodio più importante, e che non a caso è stato richiamato anche nei giorni dell’alluvione, è quello che, nella prima metà del Settecento, portò alla modifica del tracciato dei fiumi Ronco e Montone. Con la nascita dei moderni Fiumi Uniti e con il conseguente riassetto complessivo del sistema idrografico ravennate.

Il punto di partenza era allora quello della sistemazione effettuata a sua volta nel XIII secolo. Quando condussero i fiumi Ronco e Montone artificialmente ad abbracciare a nord e a sud il centro urbano. Il secondo lungo la direttrice ancor oggi testimoniata da via Fiume Abbandonato (appunto) e dalla circonvallazione S. Gaetanino, e poi oltre la Rocca Brancaleone. Il primo in un percorso parallelo alla Ravegnana, fin quasi a sbattere nelle mura del borgo S. Rocco per poi deviare verso il mare e confluire col Montone nella zona dell’attuale quartiere Darsena.

Il risultato di tale unione fu un antecedente dei Fiumi Uniti, che inizialmente si dirigeva verso Porto Fuori. Poi fu portato a sfociare in mare più a nord, con un estuario di cui è rimasta memoria nel nome di Punta Marina. 

I motivi che avevano indotto gli uomini del Medioevo a tale sistemazione erano diversi. L’approvvigionamento idrico, la fornitura di forza motrice per i mulini, l’alimentazione dei lavatoi e dell’ancora vitale sistema di canali interni alla città. E, ovviamente, la difesa della stessa.

Tuttavia, già dopo pochi secoli il rapporto costi-benefici di quell’assetto si era ormai invertito. Col tempo, infatti, l’alveo dei fiumi Ronco e Montone si era progressivamente innalzato, contestualmente a un abbassamento per subsidenza naturale del livello del centro urbano.

Unita alla deleteria presenza delle chiuse dei mulini, e agli effetti del piovoso regime climatico della ‘piccola era glaciale’, tale situazione esponeva la città a inondazioni sempre più frequenti. Fra le quali la più devastante fu quella del maggio 1636. Già dal Cinquecento avevano dunque cominciato a susseguirsi diversi progetti predisposti da tecnici e autorità al fine di risolvere il problema.

Nel complesso, l’idea di base era quella di liberare la città dall’‘abbraccio mortale’ dei fiumi. Portando il Montone a immettersi nel Ronco a sud del centro urbano. Tale operazione si scontrava però contro interessi consolidati (in particolare quelli dei proprietari dei terreni e dei mulini) e con problemi tecnici ed economici. A complicare le cose ci fu poi, alla metà del Seicento, la realizzazione del canale Panfilio, che collegava la città con il porto Candiano, a sud. E dunque nell’area che avrebbe dovuto essere interessata dalla diversione dei fiumi.

Solo nel nuovo clima politico e culturale dell’inizio del Settecento, il ‘secolo riformatore’, la vicenda ebbe finalmente una svolta. In seguito all’elezione, nel 1730, del papa Clemente XII (Lorenzo Corsini). E alla conseguente nomina di un nuovo legato di Romagna nella persona di Bartolomeo Massei. Questi nel 1731 affidò lo studio della questione ai due ‘primari matematici’ Eustachio Manfredi e Bernardino Zendrini, professori rispettivamente a Bologna e a Padova.

Dopo avere esaminato i progetti precedenti, essi elaborarono un piano che prevedeva la deviazione del Montone nel punto in cui si sarebbe costruita la chiusa di S. Marco. E il suo congiungimento con il Ronco circa due chilometri a sud di Porta Sisi. Da qui avrebbero scavato l’alveo dei nuovi Fiumi Uniti, che avrebbe raggiunto il mare sfruttando in parte quello del dismesso Panfilio. Mentre avrebbero realizzato il nuovo portocanale sfruttando la traccia dei Fiumi Uniti precedenti. Vinte le ultime resistenze e perplessità, il 16 marzo 1733 una solenne funzione nella basilica di Classe diede il via ai lavori di escavo. Mentre nell’ottobre seguente posero la prima pietra della chiusa.

Nonostante l’insorgere di alcuni problemi tecnici, i lavori erano in corso quando, nel febbraio del 1735, Massei lasciò la città per essere sostituito alla guida della Legazione da uno dei protagonisti assoluti della storia ravennate di quel secolo, il cardinale Giulio Alberoni. Questi prese immediatamente in carico la prosecuzione del progetto, senza mancare però di lasciarvi la sua impronta personale.

Il riassetto complessivo del sistema fluviale comportava infatti la costruzione di tre nuovi ponti. Uno sul Ronco per la via Cella, uno sul Montone per la Ravegnana (ponte Assi) e il terzo sui Fiumi Uniti per la Romea. Realizzato in muratura su progetto del fusignanese Giovanni Antonio Zane, riutilizzando i mattoni prelevati dalla Rocca Brancaleone, il Ponte Nuovo fu un’opera all’avanguardia per l’epoca. E fu oggetto della speciale attenzione del cardinale.

Fu grazie alla sua autorità che arruolarono – scriveva la Gazzetta di Ravenna – “tanti vagabondi e scioperati, che marcivano nell’ozio in questa, e nell’altre città e luoghi vicini,” che lavorarono di giorno e di notte riuscendo a terminare l’opera già alla fine del 1736. Due anni dopo, il 14 dicembre 1738, il Ronco venne immesso nel nuovo alveo. Alla presenza di una folla entusiasta e al suono corale delle campane della città.

Finalmente, nel dicembre del ‘39, anche il Montone fu unito al Ronco, ponendo termine dopo quasi un decennio alla grande impresa della diversione. E con essa all’incubo delle alluvioni della città. In effetti, avevano modificato il progetto originario di Manfredi e Zendrini in una parte sostanziale, perché Alberoni era intervenuto anche sul nuovo porto, da lui spostato nel tracciato che è quello del Candiano attuale.

Questa, si sarebbe tentati di dire con banale formula di chiusura, ‘è un’altra storia’, ma non sarebbe corretto. Era la seconda parte di un’unica grande storia, che nel giro di un quindicennio modificò alla radice l’assetto infrastrutturale ravennate nelle forme che, dopo tre secoli, sono ancora quelle di oggi.

Ronco e Montone: il corso della storia
Qui sopra, la chiusa di san Marco. Segue un’immagine dei Fiumi Uniti che fanno capolino in mezzo alla folta vegetazione a Ravenna.
Ronco e Montone: il corso della storia

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