“Ho un figlio,” Bonisoli sussurrerà al giornalista a microfono spento, per giustificare la sua reticenza. Filmato e libro omettono questo particolare. L’ho appreso da Sergio Zavoli.
Il primo impatto col mondo della rivolta armata lo ebbi nel giugno 1977, neoassunto al Gr1 Rai proprio da lui. Da bambino mangiavo pane e ciliegie davanti allo schermo tivù. Seguivo il mio futuro maestro in Processo alla tappa, la trasmissione che rivoluzionò il modo di parlare di ciclismo, dando voce ai gregari e umanità all’insieme.
Quando potei chiedergli quale fosse la filosofia di quella trasmissione, Sergio Zavoli rispose: “Il messaggio rassicurante era che nella vita si può anche arrivare secondi, terzi e così via. Restando tuttavia rispettabili. Finire vincenti è un colpo di teatro estremo, non sempre necessario.”
Da redattore espressi il desiderio di seguire in punta di piedi e di penna un Giro d’Italia. Fui accontentato. 60ª edizione. 20 maggio-12 giugno 1977. Prologo a Monte di Procida, arrivo in piazza Duomo a Milano. Assi e circostanze nella manica del belga Michel Pollentier, oscuro portaborracce, la gamba destra piena di varici. Dietro l’outsider si piazzarono, quell’anno, Moser e Baronchelli.
A metà strada il Paese festante per i campioni del pedale, le miss e il taglio del traguardo, smette di applaudire la maglia rosa, fa i conti con le Brigate rosse. Nell’arco di tre giorni, l’1, il 2 e il 3 giugno, a Genova, Milano e Roma sparano a Vittorio Bruno, vicedirettore del Secolo XIX, a Indro Montanelli, allora alla guida del Giornale Nuovo e al direttore del Tg1 Emilio Rossi.
“Gambe di piombo e piombo nelle gambe. Fughe dal gruppo e follie di gruppuscoli. Fatiche di giornata e sovversioni di un’epoca. Vita di carovana e agguati a tradimento. L’Italia unita dalle corse, lacerata dal terrorismo,” ritrovo scritto nelle mie cronache che, d’accordo con Sergio Zavoli, virarono dallo sport a quel tema feroce. Fu una grande scuola vedere le cose come le vedeva lui e soprattutto farle vedere con l’unico mezzo a disposizione per noi della radio: la voce e le parole.
C’era ancora la minaccia del terrorismo quando Sergio Zavoli tornò in Romagna per tenere a battesimo mio figlio Mattia. Fece da ‘santolo’ ripudiando l’altro ambiguo termine, ‘padrino’. Aveva la scorta e l’auto blindata. Scendemmo in piazza, a Bagnacavallo, dove ci aspettava il celebrante, il prete-scrittore don Francesco Fuschini. Un signore, uscendo dal bar con un pacchetto di paste in mano, lo riconobbe ed esclamò in dialetto, incredulo: “C’fata dmenga!” (“Che razza di domenica!”). Aver visto il mito del giornalismo lì, per strada, come niente fosse, l’aveva messo in agitazione. “C’fata dmenga!” un po’ come “Osta te!” il telegramma di due parole che Fellini inviò a Sergio quando fu nominato presidente della Rai. Roba che solo noi romagnoli possiamo capire a fondo.