Laurea in Ingegneria con un dottorato in Scienze Geodotiche e Topografiche, attualmente Simonetta Montaguti svolge ricerche e rilevazioni sul carbonio all’osservatorio climatico del Cnr sulla vetta del Monte Cimone.
Un presente ‘tranquillo’ che va a punteggiare un curriculum affollato di esperienze estreme. “Al termine del percorso accademico mi vedevo già proiettata nella professione,” racconta la scienziata. “Non sapevo nemmeno cosa fosse la ricerca.”
È la sollecitazione di un docente a frenare la scalpitante giovane, comunque disponibile a calarsi in una realtà che avrebbe presto imparato a conoscere e padroneggiare. “Mi è stato proposto di proseguire le ricerche effettuate durante la redazione della tesi. Trattando ed elaborando i dati trasmessi dai colleghi impegnati in Antartide, mi si è aperto un mondo: in quel momento ho iniziato a sognare una missione al Polo Sud.”
Due anni più tardi il sogno di Simonetta Montaguti si avvera. “Sono stata inserita nella spedizione come riserva di una collega poi scartata alle visite mediche effettuate all’Aeronautica Militare. Vengono effettuati test molto approfonditi a livello fisico e psicologico, calibrati in base all’età, alla destinazione e al tempo di permanenza.
Bisogna infatti tener conto che si può partire per una base costiera o per una base a 4.000 metri di altitudine, e rimanere in Antartide un anno intero, vivendo 9 mesi di assoluto isolamento, con l’impossibilità di far rientro a casa qualsiasi cosa accada.”
La partenza è preceduta da una preparazione rigorosa. “Per affrontare l’inverno polare è necessario frequentare un corso di 5 giorni all’Esa in Germania per imparare a gestire le possibili difficoltà.”
Nel 2005 la prima spedizione estiva nella base costiera Mario Zucchelli, durata un anno e mezzo. Nel 2013 il primo inverno antartico per il Cnr di Bologna, nel 2016 il secondo sulla base internazionale Concordia. Risale al 2021 invece la permanenza per un paio di mesi nella base costiera per l’Università di Bologna. “Nel mentre non mi sono risparmiata una sortita in Artide.”
Il debutto in Antartide è preceduto da un corso di sopravvivenza di due settimane. “Una al centro ricerche Enea sul Brasimone per imparare l’uso del gps, le pratiche di pronto soccorso, come muoversi in sicurezza su una base, gli interventi da effettuare in caso di incendio e di caduta in mare, fino alle prove per salire e scendere dall’elicottero.
La seconda settimana è dedicata al campo tenda sul Monte Bianco ed è finalizzata a provare l’isolamento, fare passeggiate per acclimatarsi in altitudine, prendere contatto con i ghiacciai, imparare a recuperare persone cadute nei crepacci.” Corsi in cui si acquisiscono nozioni e pratica ma anche una maggiore serenità di fronte all’imprevisto.
“La prima partenza è stata molto tranquilla, conoscevo i compagni di spedizione. Differente invece il clima in famiglia: mia mamma è sempre stata molto apprensiva.” E di sicuro le notizie giunte dal ‘fronte’ non hanno contribuito a far scendere la tensione.
“In occasione della prima traversata fatta con una rompighiaccio partita dalla Nuova Zelanda, scrissi ai miei: ‘Stiamo imbarcando acqua ma il capitano dice che va tutto bene.’ Che incosciente! A casa ne ridiamo ancora. Con il senno di poi ho imparato a omettere certi dettagli e a sorridere sempre durante i collegamenti con la famiglia.”
Collegamenti un tempo infrequenti, oggi facilitati da WhatsApp. “Si comunica in tempo reale, ma internet va riservato alla trasmissione dei dati scientifici.”
Difficoltà di comunicazione e pure di alimentazione, con i surgelati, neanche a dirlo, nel ruolo di pietanza principale. Trascorrere un anno in Antartide è probante per mille motivi. “Parti per scelta, perché desideri vivere un’esperienza forte. Tuttavia prendi coscienza di quel che ti aspetta solo quando riparte l’ultimo aereo.” È in quel momento che percepisci il significato della parola solitudine. Ma Simonetta Montaguti non è tipo da lasciarsi sopraffare dalla paura dell’ignoto.
“Ho vissuto l’unico momento di scoramento il giorno in cui l’elicottero che doveva riportarmi alla base non riusciva a scendere per via del vento, che ‘soffiava’ a 300 metri al secondo!” A fare da contraltare, lo stupore stordente al cospetto dell’immensità dell’Antartide. “Natura allo stato puro! Mi è rimasta nel cuore e se ci sarà l’occasione, sarò pronta a ripartire.” A dispetto degli 80 gradi sotto zero da affrontare nella notte polare.
“Si utilizza abbigliamento tecnico che aiuta a mantenere il più a lungo possibile il calore corporeo, bisogna coprire anche il viso perché il freddo brucia come il fuoco.” A volte è necessario scegliere il male minore. “Dovendo salire su una torre metallica alta 40 metri per fare manutenzione, mi è capitato di non indossare la maschera: meglio bruciarsi e avere visibilità piuttosto che rompersi una gamba perché non si vede nulla.”
Esperienze che cambiano il carattere: il periodo di isolamento è forte e stressante a livello fisico e psicologico, ma allo stesso tempo ti dà la possibilità di metterti in gioco, capire cosa vuoi fare della tua vita. Le campagne invernali sono più votate allo studio dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale, del buco nell’ozono. Le campagne estive, legate alle ricerche dell’Università di Bologna, sono finalizzate alla comprensione del movimento della crosta terrestre. Affacciarsi al futuro è tutt’altro che rassicurante.
“Il cambiamento climatico è evidente, si avverte più in Artide che in Antartide, non a caso si parla di ‘amplificazione artica’. Negli ultimi dieci anni le temperature medie dell’acqua e dell’atmosfera sono salite di oltre 1 grado: un tempo il mare ghiacciava, ora non più.” Salta subito agli occhi l’immagine drammatica dell’orso bianco accucciato su un iceberg minuscolo. E proprio quello con mamma orsa e i suoi cuccioli ha rappresentato uno degli incontri destinati a restare indelebile nell’animo prima che nello sguardo di Simonetta Montaguti. Che, tra un viaggio e l’altro, rientra a Forlì.